Gli acronimi ormai sono entrati a far parte del nostro lessico; un po’ come le password (ormai impossibili da ricordare tutte), ogni giorno più numerose. Il settore finanziario-economico forse è quello dove se ne fa il maggior uso, vista la quantità degli interventi in uso e la molteplicità degli attori, oltre al fatto che spesso la definizione di queste misure ha titoli lunghissimi, per cui la riduzione a acronimo è fondamentale.
Uno dei più riusciti (e dei più celebrati) è il ben noto PIGS, un termine quasi offensivo nell’idioma inglese, costituito dalle iniziali dei 4 Paesi ritenuti “con le mani bucate” e quindi “accusati” di minare la solidità europea (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna, che diventava PIIGS se si aggiungeva l’Irlanda, Paese che ha attraversato momenti economicamente durissimi, da cui però è emerso).
L’utilizzo di questo acronimo era sinonimo di “rischio”, una sorta di “alert” piuttosto forte, che stava a significare l’instabilità finanziaria di questi Paesi e la conseguenza necessità di un “premio al rischio” per chi avesse avuto il “coraggio” di investire in attività e/o società appartenenti alla loro giurisdizione.
Il “metro di misura” forse più noto, che meglio rappresentava (e rappresenta tutt’ora) questo “rischio” è lo spread, il “rendimento aggiuntivo” che gli investitori richiedono su asset ritenuti meno sicuri (o meno liquidi). Questo vale un po’ per tutte le attività finanziarie, ma forse nulla più del debito pubblico è in grado di rappresentare meglio questo “rischio”. Per tutti il “benchmark” era (e rimane) la Germania: il bund, infatti, viene ritenuto una sorta di “polizza” contro il rischio: se voglio dormire sonni tranquilli è quello il titolo da comprare, a costo, come è stato sino a pochi mesi fa, di “pagare un premio” allo Stato tedesco (perché tali erano i rendimenti negativi), e quindi, di fatto, trovarsi, a distanza di anni, con un capitale inferiore rispetto a quello iniziale.
Stupisce non poco oggi scoprire che, almeno sulle scadenze brevi (2 anni), in alcuni casi i rendimenti offerti dai PIGS sono addirittura inferiori a quelli tedeschi. L’esempio più eclatante è quello del Portogallo, i cui titoli a 2 anni oggi rendono meno di quelli tedeschi (3,26% vso il 3,30%), seguito a ruota dalla Spagna, che offre un tasso leggermente superiore (3,45%). Un gradino più su troviamo la Grecia (3,66%), con l’Italia ancora più lontana (3,79%). Il che non significa che le parti si sono invertite e che gli abitanti di Berlino o di Francoforte si lasciano andare a spese folli e il governo Scholz non sia più attento ad una rigorosa politica di bilancio, o che la Germania oggi abbia preso il posto dell’Italia (o di uno degli altri Paesi) per quanto riguarda il rapporto debito-PIL.
Il “cqpovolgimento” della realtà va ricercata in motivazioni squisitamente tecniche (sostanzialmente 2).
La 1° è legata ai prezzi dell’energia, con particolare riguardo a quanto successo tra luglio e agosto, quando il gas europeo raggiunse il picco di circa € 350 al megawattora, per poi, dopo la metà di settembre, cominciare a sgonfiarsi, per arrivare, in questi giorni, ai valori del 2021. In quella fase, gli operatori, che operano utilizzando i “derivati” per le loro coperture, in considerazione del continuo aumento dei prezzi, sono stati costretti, praticamente ogni giorno, ad aumentare il valore delle loro “garanzie” (le cosidette “margin call”). Garanzie che venivano prestate, appunto perché considerati più sicuri, offrendo titoli di stato tedeschi di durata brevi. Essendo quel particolare segmento non così efficiente (per esempio, i nostri BTP lo sono molto di più, fatto questo che contribuisce agli acquisti dei nostri titoli di debito), questo ha fatto sì che il prezzo del “sottostante” (appunto il bund a 2 anni) continuasse a salire di prezzo, facendo diminuire lo sprqead. Da settembre le acque si sono calmate. E già questo ha contribuito a fermare la salita dei prezzi. In più, l’Agenzia tedesca del debito ha deciso di aumentare la quantità di titoli da usare come garanzia. Senza contare che ad ottobre la Banca Centrale Europea, che nel frattempo aveva iniziato a metter in atto politiche monetarie di maggior rigore, ha reso meno convenienti le operazioni di finanziamento agevolato alle Banche, il cosidetto TLTRO: molte banche, a quel punto, hanno cominciato a chiudere le operazioni, per le quali nella maggior parte dei casi erano stati consegnati, sempre come garanzia, i titoli tedeschi. Titoli che, a quel punto, “tornano indietro”, e quindi reimmessi sul mercato, aumentando la quantità.
Anche se non su questi livelli, anche il mercato dei titoli con scadenze più lunghe sta segnalando un fenomeno analogo, con il restringimento degli spread per tutti i Paesi. Fenomeno che evidenzia come le tensioni sull’€ si siano, in questi anni, un po’ allentate, oltre al fatto che la Germania oggi è meno “virtuosa” di quanto siamo abituati a vederla.
La pesante flessione di Wall Street di ieri sera ( Dow Jones – 1,66%, Nasdaq – 1,80%, S&P – 1,85%) questa trascina al ribasso i mercati asiatici: a Tokyo il Nikkei flette dell’1,67%, in Cina Shanghai perde l’1,40%, mentre ad Hong Kong l’indice Hang Seng fa – 2,87%, come spesso succede penalizzato dai titoli tecnologici.
Futures nel segno meno, più marcato in Europa, che si riallinea con Wall Street, meno penalizzata questa mattina.
Petrolio in ribasso, con il WTI a $ 75,11, – 0,90%.
Gas naturale Usa a $ 2,468, – 3,07%.
Ha ripreso quota, invece, il Gas naturale europeo, che si riporta a € 47,35 per megawattora.
Recupera anche l’oro, a $ 1.837.
Spread intorno ai 176 bp, per un rendimento del BTP intorno al 4,40%.
Treasury al 3,82% nei primi scambi sui mercati asiatici.
Oggi è atteso il dato sulla disoccupazione USA, un appuntamento molto atteso, che potrebbe indirizzare la giornata sui mercati.
In recupero l’€, che si porta a 1,060 vso $.
Bitcoin “appiccicato” ai $ 20.000 (20.011, – 1,73%).
Ps: non soltanto questo è stato uno degli inverni meno piovosi che si ricordi, ma è stato anche, per l’Europa, il secondo mai più caldo che si sia mai registrato, di 1,4° superiore alla media 1991-2020. Superato solo da quello del 2019-2020. Un altro campanello d’allarme sul fronte della transizione climatica. Ma che forse non è ancora sufficiente per far comprendere la gravità della situazione